Ci sono momenti in cui serve fermarsi.
Non per mancanza di cose da fare, ma per un eccesso.
Di stimoli, di parole, di connessioni continue.
Momenti in cui il rumore di fondo diventa così assordante che anche i pensieri faticano a farsi spazio.

Nelle ultime settimane ho sentito la necessità di mettere in pausa. Non tutto, non il lavoro, non i progetti — anzi, di cose ne sono successe tante, e non tutte piccole. Ma ho scelto di sospendere la presenza, quella pubblica sui social, quella che spesso si confonde con la narrazione continua di sé.

È stata una scelta e, come tutte le scelte vere, anche un po’ una fatica.

Mi sono trovato in una zona grigia che definirei sovraccarico cognitivo. Una condizione che mescola la frenesia di cercare sempre nuovi compiti con la fatica reale di portarli a termine. Un cortocircuito tra energia e oppressione, tra volontà e logoramento.

Ho scritto (e detto) a tante e tanti: “sono in un frullatore” ed è quella la sensazione precisa.

Non so se esiste un termine clinico per questo. So però che il silenzio, a volte, è l’unico modo per riascoltarsi. E che anche chi lavora con i dati, con le automazioni, con l’AI, ha bisogno di momenti umani, profondamente umani, per rimettere a fuoco le priorità.

Scrivo oggi per spiegare, non per giustificare. Perché so che chi mi conosce o lavora con me, forse si è chiesto il motivo di questo silenzio. E preferisco raccontarlo con le mie parole, piuttosto che lasciarlo a interpretazioni.

Non è una chiusura, ma una pausa.
Grazie, a chi ha avuto pazienza.
E a chi ha continuato a esserci anche nel silenzio.

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