C’è un nuovo termine che inizia a circolare, ed è uno di quelli che costringe a fermarsi: Poverty Porn 2.0.
Sì, suona provocatorio. Ma la questione è cruciale per chi, come noi, lavora nel terzo settore.
📸 Iniziano a vedersi le prime campagne di raccolta fondi che usano immagini generate dall’intelligenza artificiale.
Provo a immaginare la logica (in buona fede) di chi fa questa scelta:
- Nessuno sul campo = risparmio economico.
- Nessun consenso da chiedere = risparmio burocratico.
- Nessuna persona reale = “protezione” della privacy.
In apparenza, si risolvono problemi pratici, reali. Ma è una scorciatoia.
È un cortocircuito etico.
Ci troviamo davanti a immagini cariche di bias, a volti che non esistono ma che “sembrano soffrire” quel tanto che basta per smuovere l’empatia e, forse, aprire un portafoglio.
E il costo di questa scorciatoia? La fiducia. L’autenticità. L’equilibrio già fragilissimo del rapporto tra chi dona e chi racconta.
🧠 Non è solo un problema tecnologico. È un problema culturale, di governance, di visione.
Mi chiedo, e vi chiedo:
Che cosa succede quando si inizia a raccontare un dolore che non esiste per una causa reale?
Che impatto ha, sulla nostra stessa empatia, sapere che quel volto sofferente è stato “inventato” in pochi secondi?
Che fine fa il nostro senso critico?
📉 Usare un dolore finto per raccogliere fondi veri non risolve un problema: ne crea uno molto più grande. La crisi dell’autenticità.
Come dice giustamente Matteo Flora in un video recente, rischia di essere un suicidio reputazionale (lo linko nel primo commento).
Perché nel non profit, il capitale più importante che abbiamo è la fiducia. Se perdiamo quella, abbiamo perso tutto.
Voi cosa ne pensate? È una deriva pericolosa o un’opportunità da governare? Parliamone.
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