Da settimane avevo questo post tra i miei appunti, lo rileggevo, lo modificavo, ma continuavo a rimandarlo. Parlare di fallimento non è facile, e trovare le parole giuste è stata una sfida.
L’altra sera, durante la Cerimonia di Chiusura delle Olimpiadi, ho trovato l’ispirazione ripensando a queste settimane di ferie in cui mi sono goduto i Giochi e riflettendo sul significato di fallimento e successo.

Le Olimpiadi, fin da quando ero bambino, hanno sempre avuto un fascino speciale per me. Ricordo poco delle Olimpiadi di Mosca, se non per il tenero orsacchiotto Mysha, ma da Los Angeles 1984 ogni estate olimpica è diventata un momento magico.

Quest’anno tra le emozioni, le gare e gli eventi è emersa in modo prepotente la contrapposizione tra due modi di vedere lo sport che sono forse generazionali ma che di sicuro raccontano due approcci molti diversi alla vita.

Da una parte la retorica del sacrificio a tutti i costi, della “vittoria o morte”, della tragedia del fallimento; dall’altra la visione di un competizione come confronto, del sacrifico come riconoscimento del limite da superare senza mettere a rischio la propria saluta, fisica o mentale.

Mi è tornata in mente una riflessione di Vera Gheno che, nel suo podcast, ha definito il termine “fallito” come un participio passato “tombale”. Un’etichetta definitiva che non lascia spazio al cambiamento.

È comprensibile sentirsi sotto pressione quando non si raggiungono gli obiettivi, soprattutto con l’avanzare dell’età. Tuttavia, non possiamo ridurre la narrazione di una gara, o della vita stessa, a questo concetto. Come ci ha ricordato Benedetta Pilato, solo partecipare a un’Olimpiade è un fatto straordinario, riservato ai migliori atleti del mondo. Non arrivare al primo posto, dopo aver dato il massimo, è semplicemente una tappa.

Siamo persone in continua evoluzione e ogni fallimento è una parte del nostro cammino: dobbiamo riconoscerlo, accoglierlo, e utilizzarlo per andare avanti.

Il fallimento non è l’opposto del successo, ma una componente fondamentale di esso. Simone Biles ci ha dimostrato che abbracciare la propria vulnerabilità, riconoscere i propri limiti e avere il coraggio di fermarsi quando necessario, sono segni di una maturità e di una forza interiore che vanno oltre qualsiasi medaglia e che possono contribuire a tornare a vincere.

Tutto bello, quindi? Non proprio. Perché, se non sei alle Olimpiadi, se non sei tra i migliori al mondo, tutto questo è più complesso.

Nel mondo del lavoro, fallire, ammettere di non farcela o di avere bisogno di aiuto è ancora troppo spesso visto come un tabù. Non che sia facile per chi pratica sport agonistico: tuttavia, se sei la “più grande di sempre”, forse qualcuno ti ascolterà, anche solo per tutelare i propri interessi. Questo può dare visibilità a un tema complesso e affascinante come la consapevolezza e la gestione dei propri limiti e delle proprie capacità perché in questa vecchia cultura c’è anche l’esaltazione di chi vince che diventa migliore di chiunque e quindi non può e non deve fallire, mai.
Questa è l’altra faccia della medaglia, letteralmente: ce lo ha ricordato Julio Velasco, chi vince non è migliore, ha “solo” gareggiato meglio. Lo ha detto prima e lo ha ribadito dopo aver accompagnato la sua nazionale a vincere l’oro olimpico.

Dopo queste Olimpiadi, mi sono ripromesso di fare pace con alcuni dei miei fallimenti e di affrontare con meno paura quelli che verranno.

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