🧑‍💻Mi capita qualche volta di ricevere richieste tecnicamente complesse – talvolta assurde – che sembrano dare per scontata una verità implicita: con la tecnologia, tutto è possibile e, soprattutto, tutto è semplice. Questo approccio “magico” non tiene conto del lavoro necessario per trasformare un’idea (o una pretesa) in realtà.

🧞E qui emerge il primo paradosso: la volontà di accettare la sfida. Anche di fronte a richieste apparentemente irrealizzabili, c’è una componente di nerdismo, una spinta al problem solving – direbbero quelli bravi – che, lo ammetto, rappresenta una sfida stimolante.

😫Ma, una volta trovata la soluzione, ecco il secondo paradosso: la frustrazione. Chi ha fatto la richiesta raramente si rende conto della complessità del risultato ottenuto. La mancanza di consapevolezza – o peggio, di riconoscimento – verso ciò che significa affrontare e risolvere questi problemi lascia un vuoto.

🤔Forse è una questione culturale. Sembra che, in molte organizzazioni, ci sia un gap di comprensione verso il valore del tempo, della competenza e del lavoro che la tecnologia richiede. Dire “non si può fare” sarebbe più salutare e onesto, ma il desiderio di trovare una soluzione spesso ci spinge a dire “proviamoci”.

❓E allora mi chiedo: come possiamo bilanciare la tensione tra l’ambizione di risolvere problemi complessi e la necessità di creare consapevolezza? Perché il rischio è che questa dinamica non solo alimenti frustrazione, ma impoverisca anche la crescita culturale e strategica delle organizzazioni.

👉Che cosa ne pensate? Vi è mai capitato qualcosa del genere? Come lo gestite?👇

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