Ieri un collega mi ha mostrato un articolo de Il Post sui dialogatori face-to-face, e la nostra reazione è stata: un po’ incredula perché per molti di noi è strano pensare che sia necessario spiegare che, ebbene sì, il dialogo diretto funziona ma questa sorpresa dice molto più su di noi che sul contenuto dell’articolo.

Nel terzo settore, diamo per scontato che il dialogo diretto sia una pratica consolidata. Tuttavia, per chi è al di fuori di questo ambito, i dialogatori possono apparire come figure invadenti o addirittura sospette. Ho notato che molte persone non sanno nemmeno cosa facciano esattamente, e spesso li percepiscono negativamente.
Parlando con alcuni conoscenti mi capita spesso di dover spiegare come funziona il dialogo diretto e che, per esempio , chi fa questo mestiere non prende soldi da chi viene fermato: la cosa incredibile per me, non è tanto dover dire che i dialogatori non maneggiano soldi ma che quello è effettivamente un mestiere (possiamo poi discutere di contratti, tutele e diritti, ma non è questo il post).

Questo mi porta a riflettere su quanto la nostra autoreferenzialità influenzi le nostre percezioni e decisioni professionali. Viviamo in bolle sociali che rafforzano le nostre convinzioni, ma è fondamentale confrontarsi con prospettive diverse per evitare di perdere il contatto con la realtà.

Voi cosa ne pensate? Quanto le nostre bolle influenzano il nostro lavoro e le nostre scelte?

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